Un film per loro, un film per me. Così
recita la vecchia massima hollywoodiana dei registi: un film lo si fa per
compiacere i produttori, le Majors,
le Banche finanziatrici e un film lo si fa per sé, per il proprio modo di fare
arte e per la propria poetica.
Steven
Spielberg
non è nuovo a questa dinamica, specie da che è divenuto produttore di
fama con la Amblin Entertainement e la DreamWorks: i grandi successi di
botteghino gli danno la possibilità di investire in produzioni meno urlate e
tuttavia più curate.
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Albert e Joey |
Nel caso di War Horse (2011) i soldi
spesi sono stati comunque tanti ma si riesce lo stesso a capire che il film
pesca nell’immaginifico infantile spielberghiano più classico. C’è un ragazzo
con un padre che ammira e non comprende ad un tempo; c’è un essere gentile e
parzialmente indifeso con cui il ragazzo fa amicizia (qui è un cavallo e non un
extraterrestre con le fattezze di un barattolo ma il principio è lo stesso); c’è
un antagonista, il mondo dei Grandi e Adulti che se in E.T. era rappresentato dall’F.B.I., qui invece è incarnato dalla Guerra che per
mano dell’Esercito sottrae Joey, il cavallo, all’affetto del suo simbiotico
padrone Albert (Jeremy Irvine).
Joey ne vedrà delle belle: prima cavallo
di un aristocratico tenente che muore subito in una disperata quanto
anacronistica carica contro gli scaltri prussiani; poi bestia da soma per i ‘crucchi’
che gli fanno portare l’artiglieria pesante; quindi cavallino di una bimba
dalla salute cagionevole e dal destino segnato per poi tornare ad essere carne
da macello dell’esercito del Kaiser.
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La corsa folle di Joey |
Finché, stremato dall’illogico agire di
questi esseri umani che contrariamente a qualsiasi pensiero naturale si stanno
autodistruggendo da tre anni, Joey si lancia in una folle corsa verso la no man’s land, la terra di nessuno, il
limbo tra i due schieramenti di trincee dove tutto può succedere perché è una
sorta di aldilà mitico in cui le regole nazional-borghesi non funzionano.
Nel suo fuggire Joey si trascina dietro
tutto, persino il filo spinato che infine lo vince e gli si avvolge intorno
imprigionandolo sempre di più e costringendolo all’immobilità nel bel mezzo degli enormi
buchi creati dalle bombe. In quel momento, Spielberg introduce il miracolo per
cui il suo cinema è famoso: un soldato inglese avvista il cavallo agonizzante,
e così fa un soldato tedesco. L’inglese alza una bandiera bianca, si avventura
nella terra di nessuno, seguito dal suo nemico. Si trovano di fronte al povero
animale, simulacro di una natura violentata dall’insensatezza umana, e con
pazienza lo liberano dalla stretta mortale che lo avvolge.
Joey e Albert, a fine film, si
ritroveranno e torneranno a casa (quasi) come prima, diversi e carichi di
esperienze, entrambi sopravvissuti ad un orrore difficilmente immaginabile.
E tuttavia Spielberg, che già in Salvate il soldato Ryan quell’orrore
aveva provato a descrivercelo, ritorna anche qui a mostrarci fangose e
gelide trincee, uomini mandati al macello e altri uomini costretti a restare
nelle retrovie ed a sparare a chi torna indietro, per non parlare di quelli che
invece raccoglievano i preziosi dei commilitoni prima che andassero alla carica
per evitare che quegli oggetti se li prendessero i ‘crucchi’, in caso di morte del proprietario.
L'omaggio a Via col vento |
Si tratta di un film classico, di puro
cinema in pieno stile anni ’50, in cui il regista si compiace delle immagini
che crea, si tratti della superba campagna del Devon, della Francia martoriata
dai crateri delle granate o degli splendidi esterni color seppia con cui tinge
il ritorno a casa di Albert e Joey, un chiaro omaggio sia cromatico che
registico a Via col vento.
Spielberg si diverte, vuole raccontare a
suo modo una storia che gli sta a cuore e lo fa da par suo. Splendida la scena
in cui un carro armato insegue Joey e non gli dà tregua finché il cavallo,
intrappolato in un cul-de-sac, non balza sopra l’infernale macchinario e scappa
nella direzione opposta. Del carro armato vediamo solo l’esterno e le feritoie,
mai chi lo comanda, come in Duel non
vedevamo mai il conducente del terrificante camion rugginoso e sferragliante:
la Natura che sfugge alla caccia della tèchne
che dall’ ‘800 in poi sembra non darle un minuto di respiro.
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Joey e il carro armato |
Il giovane soldato che, bandiera bianca
in pugno, si avventura nella desolata terra di nessuno (sembrano quasi le
Pianure di Mordor de Il Signore degli
Anelli) recita il Salmo 23, quasi che tutta la scena fosse un semplice dare immagine
a quel passo biblico che funziona perfettamente come sostituto della
sceneggiatura.
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Duel |
Un film sulla brutalità della guerra,
sulla bellezza della Natura, sul semplice e speciale legame che può instaurarsi
tra un animale ed un essere umano. Steven Spielberg si conferma, ad oggi, uno
dei più talentuosi registi di Hollywood e non solo, un artista che sa farci
riflettere e commuovere, un cineasta che conosce alla perfezione il mestiere e
che ormai si sceglie solo i copioni che stimolano la sua fantasia.
Peccato per i soliti critici brontoloni
che non trovando nulla da ridire, hanno definito il film prolisso e ne hanno
criticato il doppiaggio italiano, incline a far parlare i tedeschi ‘da tedeschi’.
E pazienza, siamo ancora tutti in attesa che molti italiani – anche tra i
critici, - imparino a parlare ‘da italiani’.
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