Da
qualche settimana è uscita in libreria, per i tipi de Il Castoro, un’ottima biografia del creatore di due dei più
grandi franchise cinematografici
degli ultimi quarant’anni. George Lucas, La Biografia (ed. Il
Castoro, pp. 511, € 22) di Brian Jay
Jones è un esaustivo quanto appassionante viaggio nella vita di un cineasta
che dalla controcultura della Nuova Hollywood ha saputo creare uno degli imperi
mediatici più resistenti del nuovo millennio.
Il
libro è fitto e denso di aneddoti e curiosità ma su tutto resta un fil rouge imprescindibile che è una
lezione di vita: la nascita, il tortuoso e accidentato concepimento del progetto Guerre Stellari che rimane, nella produzione di Lucas ma anche nell’immaginario
collettivo, una sorta di unicum
narrativo calato da chissà dove (dallo spazio?) in una Hollywood che sembrava
aver perduto la capacità di raccontare storie.
In
effetti Lucas partì proprio da questo. Voleva raccontare una storia. Ma non più
una storia di quelle che pure amava tanto nel cinéma vérité francese della Nouvelle Vague: il giovane e ribelle
George si era accorto che il nostro mondo ormai prosaico e focalizzato sul
facile guadagno mancava di miti, di storie archetipiche con cui i bambini
potessero crescere.
E
tuttavia la cavalcata verso la produzione di quello che per un periodo sarebbe
stato il maggior successo di botteghino di tutti i tempi non fu affatto facile.
Non fu l’ovvio parto del golden boy
Lucas già vezzeggiato dalla critica; non fu nemmeno un film che il sistema degli
studios apprezzò sin dal suo
concepimento. Fu una serendipica
successione di eventi che portarono ad un esito inaspettato e forse però già
scritto nelle stelle (quelle della Walk of Fame, almeno).
Reduce
dal moderato disastro commerciale del suo pur pregevolissimo film d’esordio -
la distopica storia L’uomo che fuggì dal
futuro (THX 1138) che racconta di
un mondo soggiogato da un regime totalitario ed anaffettivo in cui il vero atto
di ribellione è l’atto d’amore, - con la Warner Bros. che a causa sua tagliava
i rapporti col suo mentore Francis Ford Coppola, Lucas era riuscito
fortunosamente a leccarsi le ferite grazie all’insperato successo di American Graffiti, una pellicola
nostalgica in salsa Happy Days sui
suoi giorni giovanili nella natia Modesto.
A
quel punto Lucas stava lavorando ad un progetto dal titolo provvisorio, Apocalypse Now, che però di lì a breve l’
‘amico’ Coppola gli avrebbe soffiato facendone lui un film di culto. George
allora, rimasto a bocca asciutta, decise che avrebbe fatto un film su Flash
Gordon, una delle sue grandi passioni infantili, eroe dei fumetti e delle
serie tv fantascientifiche anni ’50.

Ma
sarebbe sbagliato pensare che con ciò si risolvesse la questione. Al contrario,
Lucas procedeva nella stesura di tante storie diverse, c’era un generale
Skywalker che doveva scortare una Principessa Leia, c’era uno strano ordine
cavalleresco denominato Jedi Bendu e due droidi cui voleva riservare delle gag comiche.
Ci
vollero mesi. Intanto, gli venivano altre idee che discuteva con l'amico Steven Spielberg. Perché non raccontare
la storia di un archeologo avventuriero che negli anni ’30 gira il mondo alla
ricerca di cimeli inestimabili? Ma come chiamarlo? Perché magari non Indiana,
come l’amato alaskan malamute di George
e Marcia Lucas? Bene, perlomeno intanto era nato Indiana Smith, professore di archeologia
che avrebbe presto cambiato cognome in Jones.
Quando
il soggetto di The Star Wars fu
pronto per mostrarlo alla 20th Century Fox, quelli che lo lessero vi capirono poco o
nulla. Il denaro però era già stanziato e la produzione partì lo stesso, anche
se nessuno avrebbe scommesso un soldo bucato su questa strana storia a metà tra
Parsifal e Odissea nello spazio. Tanto che infine il produttore cedette su alcuni punti contrattuali che
sembravano irrilevanti: Lucas avrebbe mantenuto i diritti sia su eventuali sequel che su tutto il merchandising relativo al film. Alla
Fox, oggi, ancora piangono.
Persino
durante le riprese nessuno credeva nel film. Lucas sfiorò l’infarto da stress
eccessivo e Harrison Ford o Carrie Fisher non mancavano di ripetere
che a loro sembrava di girare, giorno dopo giorno, un film senza alcun senso.
Si rompevano i modellini delle astronavi, i droidi si ossidavano per via della
polvere del deserto, l’attore che impersonava C-3PO era costretto a tenersi
addosso per l’intera giornata un dolorosissimo costume metallico che nella
mente di Lucas doveva essere un omaggio a Metropolis
di Fritz Lang.
Una
volta girato e montato Star Wars
apparve un’assurdità praticamente a tutti, dagli attori ai produttori. Ma che
diavolo erano tutte queste battaglie, i Jedi, le spade di luce? Per non parlare
di “quella specie di grosso cane che co-pilotava il Millennium Falcon” (parole
di Harrison Ford). Unica stecca nel coro, come al solito, Steven Spielberg:
vide il film in anteprima e disse a Lucas “amico, potrebbe anche essere il più
bel film che è stato mai realizzato.”
Star Wars uscì timidamente
in 32 sale in tutti gli Stati Uniti, quasi una programmazione da cinema parrocchiale.
Chiunque avrebbe scommesso che sarebbe stato in cartellone due settimane e quindi la Fox lo avrebbe messo in conto
perdite in attesa che generasse utili magari in futuro. Ma poi accadde l’inspiegabile.
Il word of mouth. Fuori da quei 32
cinema cominciarono a formarsi code interminabili di giovani, quegli stessi giovani ribelli e
arrabbiati che Lucas aveva intuito fossero cresciuti senza un mito
contemporaneo, senza un romanzo di formazione per la loro generazione.
Si
dovettero stampare nuove copie del film, decine e decine di sale lo richiesero
e nel giro di un anno superò Lo Squalo
di Spielberg (1975), considerato a tutt’oggi l’iniziatore del genere blockbuster. Ne nacque una tale febbre
che si corse alla realizzazione di giocattoli e gadget di ogni genere, cominciarono i raduni di appassionati, c’era
chi addirittura era (ed è) convinto di appartenere alla religione Jedi.
E
intanto Steven Spielberg, che nel film aveva investito mentre tutti lo davano
per spacciato, se la rideva. Come quella volta che aveva invitato l’amico
George a visitare il set de Lo Squalo:
Lucas aveva infilato la testa dentro all’enorme marchingegno meccanico e
Spielberg aveva chiuso l’amico nelle fauci del Leviatano. Riuscendo solo
fortunosamente a estrarre il busto di Lucas dalle mandibole (Jaws, appunto) del mostro, i due, come
scolaretti, erano fuggiti dal set a gambe levate temendo di aver danneggiato la
costosa attrezzatura della Universal.
Gente
strana, gente di cinema.
© 2017
CINEVECIO e Gaspare Battistuzzo-Cremonini. RIPRODUZIONE RISERVATA.
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